Secondo Paracelso, medico alchimista e astrologo svizzero del ‘500, l’aspetto esteriore delle piante e, più in generale, dei cibi ne determinava l’effetto benefico e l’utilità. Così, una foglia a forma di cuore curava i disturbi cardiaci e una pianta dalla linfa gialla guariva dall’itterizia.
Applicata all’amore, la dottrina di Paracelso ha designato come afrodisiaci l’asparago, il sedano e la banana per l’aspetto falliforme, l’avocado perché i frutti crescono a due a due (gli aztechi lo chiamavano “l’albero dei testicoli”), il tartufo perché l’odore ricorda il feromone maschile, la fragola e il melograno perché evocano il sesso femminile. Simpatiche sciocchezze: per gli afrodisiaci, come per molti dei “rimedi naturali”, conta l’effetto placebo: basta essere convinti che funzionino e ci sarà qualche probabilità che funzionino davvero. Per gli Egizi era afrodisiaca la lattuga, sacra a Min che era l’equivalente di Priapo. Per Greci e Romani stimolavano il desiderio cipolle, tartufi, miele, uova, pesci e crostacei (ma io, per quanto mi piacciano, ricordo il deprimente Harrison Ford cacciatore di androidi in Blade runner: «Mia moglie mi chiamava sushi, pesce freddo»).
Nell’elenco sterminato, ci sono afrodisiaci per vegani, seguaci della medicina omeopatica e amanti della fitoterapia (yohimba, gingko biloba, maca o ginseng peruviano, damiana, tribulus terrestris) che avrebbero effetti simili al Viagra, come li avrebbe un centrifugato di anguria, melograno e limone. Sarebbero afrodisiaci, perché eccitanti e stimolanti, cioccolato e caffè (ma provate a dare inizio alla tenzone in preda alla tachicardia), peperoncino e zenzero, rosmarino e origano (perché mi vengono in mente la porchetta e la caprese?), anice e zafferano (pare che se ne servisse Cleopatra prima di incontrare Antonio).
In cima alla classifica degli afrodisiaci, dalla Belle Époque a oggi, sta l’ostrica. Per la solita dottrina di Paracelso (che cosa vi ricorda?) e perché contiene una buona concentrazione di zinco, utile dicono (ma è una credenza priva di fondamento scientifico) per sviluppare le gonadi e accrescere il testosterone. Ma contiene tutto lo zinco che vi dovesse servire anche il fegato di vitello: e allora, perché a nessuno è venuto in mente di sedurre l’amato o l’amata con un piatto di fegato alla veneta?
Spezzo più di una lancia a favore delle ostriche: sono senz’altro afrodisiache, non sarà vero ma ci credo, perché sono paradisiache, il mare dentro un guscio. E perché mangiarne una dozzina (crude, con appena una spruzzata di limone) è, per un buongustaio, un’esperienza più appagante che sperare nella buona sorte poiché, come scriveva il grande umorista Marcello Marchesi:
Pescare l’ostrica sperando nella perla
aprire l’ostrica e restare come un pirla
chiudere l’ostrica e in seno al mar riporla
questa è la vita del pescator.
Non vi piacciono le ostriche crude, dite? Non posso fare a meno di compiangervi, ma esistono ottime ricette anche per gustarle cotte. Prima, ancora una parola su quelle crude. In Liguria si mette in bocca, prima dell’ostrica, un pezzetto di pane e si mastica assieme, accompagnando il tutto con un calice di vino. Cotte, le ostriche si fanno alla tarantina: spolverizzate di prezzemolo e pangrattato, irrorate con un filo d’olio evo, aggiustate di pepe nero e messe in forno per qualche minuto. Oppure fritte in pastella (acqua tiepida, farina, olio evo, albume d’uovo e sale) alla friulana. Oppure, per finire, ripene alla ligure.
Potete procedere così: quattro dozzine d’ostriche per sei persone, otto a testa. Apritele, conservate in una ciotola la loro acqua e sminuzzatele assieme a due cucchiai di prezzemolo, quattro spicchi d’aglio, una cipolla e quattro acciughe sott’olio o sotto sale (in questo caso, è ovvio ma ve lo dico lo stesso, dissalatele). Unirete il trito all’acqua delle ostriche, aggiungerete 40 grammi di mollica di pane, tre cucchiai di olio evo, regolerete di sale e pepe e mescolerete per rendere l’impasto omogeneo. Quindi farcirete con il composto le valve delle ostriche, le cospargerete di pangrattato (attenti a non esagerare) e le infornerete a 200 gradi per dieci minuti.
Un grande appassionato di ostriche (usava quelle di Arcachon, abbinate allo champagne rosè) era Gabriele D’Annunzio. Se le faceva arrivare anche al Vittoriale, in tarda età, quando era mantenuto negli agi dalle finanze pubbliche, e Mussolini commentava agro: «D’Annunzio è un vecchio bambino che ci costa caro». Il Vate aveva una predilezione per la messa in scena, per l’ostentazione (i suoi levrieri mangiavano cotolette di vitello scottate con un goccio di cognac d’annata in ciotole d’oro zecchino) e per la recita.
Sfidando il ridicolo e l’effetto Barbie, sedusse Eleonora Duse, la più grande attrice teatrale di inizio ‘900, con una cena in tinta pastello: tovaglie e stoviglie rosa, centrotavola di rose profumatissime, champagne rosé, risotto alle rose (con vino bianco, burro e olio, cipolla, brodo vegetale, parmigiano e petali a julienne aggiunti a fine cottura) e, per concludere, il letto invaso dai petali di rosa. Funzionò, ed Eleonora ebbe in seguito a ricambiare servendo un suo riso pilaf. Con gamberetti, tartufo, burro e olio e salsa Mornay.
D’Annunzio però sapeva una cosa che nessuno dovrebbe dimenticare: l’afrodisiaco più potente è il partner. Come scriveva alla sua cuoca: «Chiara Albina, da otto giorni non ch****. Inutile che tu mi mandi gli zabaioni non avendo bisogno di raddrizzare la schiena. Mandami piuttosto una mona sottile».