Non c’è cibo che non abbia i suoi quarti di nobiltà e i suoi antenati più o meno illustri, e i funghi non fanno eccezione. Narra il poeta latino Giovenale che i tartufi nascessero nei pressi delle querce colpite dalla folgore di Zeus (quanto a lui, Giovenale, preferiva i porcini con i beccafichi). Un’altra leggenda, riportata dallo scrittore e geografo Pausania, riportava che «l’eroe Perseo, dopo un lungo ed estenuante viaggio, stanco e assetato, si poté ristorare con l’acqua raccolta nel cappello di un fungo. Decise allora di fondare in quel luogo una nuova capitale e di chiamarla Micene (“mykos” in greco è il fungo, ndr) dando così vita a una delle più importanti civiltà del passato, la micenea». Nientemeno.
Avvicinandoci alla cucina, nell’antichità i funghi erano apprezzati dai cinesi che li ritenevano “cibo degli dei”, dai babilonesi e soprattutto dagli egizi che li consideravano “piante dell’immortalità” e ne riservavano il consumo al Faraone (per inciso, appartengono alla famiglia dei funghi anche i lieviti, che gli egizi scoprirono e dei quali si servirono per primi per fare la birra e il pane).
Le prime ricette ci arrivano però dai romani, più esattamente da Apicio (27 a.C.-35 d.C.). Il quale, nel suo De re coquinaria, dedica un’intera sezione ai funghi. Trascrivo qui una sua ricetta, la più adatta ai nostri palati, che è stata tramandata come “funghi imperiali”. Usa per quattro persone 800 grammi di porcini, che fa trifolare in quattro cucchiai di olio d’oliva, per poi sfumarli con vino bianco e insaporirli con coriandolo pestato, sale e pepe. Tutto qui? Tutto qui, ma come saprete le migliori preparazioni dei funghi sono spesso assai semplici e ruotano attorno a pochi elementi: olio, meglio extravergine, e poi aglio e prezzemolo.
Non doveva avere assaggiato la ricetta di Apicio l’imperatore Claudio, avvelenato nel 55 d. C. Scrive Plinio il Vecchio nella Storia naturale, dando avvio a una tenace leggenda nera che circonderà i funghi: «Tra le piante che è rischioso mangiare, mi sembra giusto mettere anche i boleti: essi costituiscono innegabilmente un alimento squisito, ma li ha portati sotto accusa un fatto enorme nella sua esemplarità: l’avvelenamento compiuto per loro tramite dell’imperatore Tiberio Claudio da parte della moglie Agrippina, che con tale atto diede al mondo, e innanzitutto a se stessa, un altro veleno, il proprio figlio Nerone». Vera l’accusa di avere l’eliminato Claudio per fargli succedere anzitempo Nerone, errato il marchio d’infamia contro i boleti che poi sarebbero i nostri porcini: Claudio aveva ingerito con ogni probabilità delle amanita phalloides o amanita muscaria.
Resta però un pregiudizio tenace nei loro confronti se ancora nel 1475 Mastro Martino, nel suo pionieristico Libro de arte coquinaria, prescrive: «Netta li fonghi molto bene, et falli bollire in acqua con doi o tre capi d’aglio, et con mollicha di pane. Et questo si fa perché da natura sonno venenosi. Dapoi cavagli fora et lassa ben colare quella acqua in modo che restino sciutti, et dapoi frigili in bono olio, o in lardo. Et quando son cotti mettevi sopra de le spetie». Di giusto, in questa prescrizione, c’è soltanto l’uso dell’olio, perché quella di bollire i funghi non toglie loro il veleno, se ce l’hanno, e li rovina se sono commestibili. Mastro Martino si salva in corner aggiungendo: «In altro modo potrai aconciare li ditti fonghi, cioè nettandoli prima molto bene, et poi nettargli sopra la bragia, et ponvi sopra del lardo et de l’aglio battuti inseme et del pepe. Et similemente gli poterai aconciare con olio. Et etiamdio gli poterai cocere così acconci in una padela come se fosse una torta».
Intanto, pur con mille cautele, i funghi sono stati sdoganati. Uno dei massimi cuochi del Rinascimento, Bartolomeo Scappi, nel corso di un banchetto in onore dell’imperatore Carlo V che si tenne a Roma nel 1536, fa servire come entrée una “suppa di prugnoli”, e chiude con una “crostata di prugnoli”.
Bisognerà arrivare a fine Ottocento e alla Scienza in cucina e l’Arte di mangiar bene (1891) di Pellegrino Artusi, per avere la consacrazione dei funghi.
Ecco le sue ricette: semplicissime, ma tutte le variazioni e gli arricchimenti vengono da qui.
FUNGHI FRITTI
Scegliete funghi di mezzana grandezza che sono anche di giusta maturazione; più grandi riescono mollicosi e molto piccoli sarebbero troppo duri. Raschiatene il gambo, nettateli dalla terra e lavateli interi senza tenerli in molle, che sperderebbero nell’acqua il loro grato profumo. Poi, tagliateli a fette piuttosto grosse e infarinateli prima di gettarli in padella. L’olio è il migliore degli unti per questa frittura, e il condimento si compone esclusivamente di sale e pepe che vi si sparge quando sono ancora a bollore. Si possono anche dorare gettandoli nell’uovo dopo infarinati, ma ciò è superfluo.
FUNGHI IN UMIDO
Per l’umido sono da preferirsi quelli che stanno sotto la grandezza mediocre. Nettateli, lavateli e tagliateli a fette più sottili dei precedenti. Mettete un tegame al fuoco con olio, qualche spicchio di aglio intero, un po’ ammaccato e un buon pizzico di foglie di nepitella. Quando l’olio comincia a grillettare gettate giù i funghi senza infarinarli, conditeli con sale e pepe e, a mezza cottura, bagnateli con sugo di pomodoro semplice; siate però parchi coi condimenti perché i funghi non li assorbono.
FUNGHI TRIPPATI
A questa cucinatura si prestano bene gli ovoli e si dicono trippati forse perché vengono trattati come la trippa. Gli ovoli, come sapete, sono di color giallo-arancione; i più giovani sono chiusi in forma d’uovo, i più maturi sono aperti e spianati. Preferite i primi e dopo averli nettati e lavati, tagliateli a fette sottili. Cuoceteli nell’olio (Artusi diceva nel burro, ndr) e conditeli con sale, pepe e parmigiano grattato. Se aggiungete sugo di carne riusciranno anche migliori.
FUNGHI IN GRATELLA
Gli ovoli aperti sono i più atti a questa cucinatura. Dopo averli nettati e lavati, asciugateli tra le pieghe di un canovaccio e conditeli con olio, sale e pepe. Servono molto bene per contorno alla bistecca o a un arrosto qualunque.
Fin qui la nostra archeologia gastronomica. Poi ci sarebbe da dire delle mille ricette regionali: tra tutte preferisco la teglia di porcini e patate (ligure e pugliese), i porcini ripieni liguri e la piemontese insalata di ovoli crudi, condita con olio d’oliva, acciuga e prezzemolo tritati, un uovo sodo, un po’ di succo di limone impastati con una forchetta in cui sia infilzato, a insaporire, uno spicchio d’aglio. Non so se figuri in qualche ricettario dell’Ottocento, ma piaceva molto a Cavour.