Il piatto più ascetico di cui abbia memoria, il brodo di pietre, mi è capitato di incontrarlo in un libro bellissimo, Breviario mediterraneo dello scrittore croato naturalizzato italiano Predrag Matvejevic. In Italia lo ha pubblicato Garzanti ed è stato tradotto in venti lingue.
Brodo assai antico, quello di pietre, usato da Greci e Fenici, Etruschi e Illiri. Come si prepara? Prima di tutto si raccolgono dei sassi dove la bassa marea non arriva – e, forse non c’è bisogno di dirlo, dove l’acqua è pulitissima – e si cuocciono lungamente in acqua, di preferenza piovana ma va bene anche quella normale. L’acqua non va salata: ci si aggiungono alloro e timo, due cucchiai d’olio e qualche goccia d’aceto, fino a cavarne, scrive Matvejevic «succhi improbabili ma persistenti».
Miseria estrema che si fa quasi atto magico. Affascinato dalla scoperta, ho provato a mettermi sulle tracce del brodo di pietre. E l’ho trovato alla fine in una ricetta di Castellammare di Stabia che simula, per i molto poveri, gli spaghetti ai frutti di mare. Con un sugo di pietre cavate dal fondale marino, pomodori, cipolla e aglio, prezzemolo e peperoncino.
A Livorno invece approntano un brodo con i sassi spugnosi che hanno attaccate piantine e alghe, uova di pesce, avannotti e larve di granchi. Raccolti e messi in un secchio i sassi (che non devono prendere aria, altrimenti il brodo viene cattivo) si fanno bollire con cipolla, odori e pomodorini. Setacciato il brodo per evitare la sabbia, ci si cuoce della pastina e si condisce con olio, pepe e pecorino.
Ancora diversa, e raccolto folclorico prima ancora che ricetta, la sopa de pedra portoghese. Lì un vagabondo si accampa nella piazza di un paese e accende il fuoco sotto un paiolo. Incuriosita, la gente chiede che cosa sia. E lui: «Zuppa di pietre. Ottima, certo che con un pizzico di sale…». Arriva il sale e via via («Squisita, ma certo qualche patata…») finiscono nel paiolo carote, fagioli, cavoli, pancetta e chorizo, il salame piccante di spagnoli e portoghesi. Tutto il paese mangia la zuppa, mentre il vagabondo, pulito il paiolo e riposte nella bisaccia le pietre, s’incammina. E allora tutti a dirsi: «Peccato che sia andato via, senza le sue pietre non potremo più fare la zuppa».
Ma se la zuppa di pietre serve per stuzzicare l’appetito, bisognerà dopo soddisfarlo. E, restando a Livorno, niente di meglio della zuppa di pesce vanto della città, il cacciucco.
Il quale pare derivi da una zuppa di pesce in uso dalle parti di Smirne, il balik corbasi – kukuk balik in turco significa “pesci piccoli”, che ne sono l’ingrediente principale, donde la storpiatura toscana in “cacciucco – , arrivata a Livorno grazie ai mercanti ottomani nella seconda metà del ‘600 e fatta propria dagli abitanti del porto toscano con una significativa variazione: la salsa di pomodoro al posto dei capperi.
La parola cacciucco compare per la prima volta in un vocabolario della lingua italiana nel 1864 e qualche decennio più tardi, nel 1891, Pellegrino Artusi inserisce la ricetta nella bibbia della nostra gastronomia, La scienza in cucina e l’arte di mangiar bene.
Attualmente il cacciucco livornese ha una sua ricetta doc, il Cacciucco 5 C, che sta a significare “caratteristico, classico, cucinato con cura e competenza”.
Prevede tra gli ingredienti, le dosi sono per sei persone, circa mezzo chilo di pesci di scoglio (scorfano, cappone, gallinelle, pesce prete, rana pescatrice, tracine, boccaccia, tordi, ghiozzi ecc), circa 300 grammi di pesce a trance (palombo, grongo, murena), circa mezzo chilo di polpi di scoglio, seppie, moscardini e totani, circa 150 grammi di cozze pulite e circa 150 grammi di cicale di mare e gamberi. Un’avvertenza: purché si rispettino le proporzioni delle varie categorie (scoglio, trance, ecc) non è necessario che i pesci ci siano proprio tutti.
Occorrono poi 150 grammi di olio evo, mezzo chilo di pomodori maturi (o del concentrato di pomodoro diluito in acqua), delle fette di pane abbrustolito e strofinato con l’aglio, degli odori (aglio, cipolla, salvia, sedano, carota, peperoncino), vino rosso, sale, pepe e, facoltativi, aceto (serviva in passato se il pesce non era freschissimo) e prezzemolo.
Si procede così, con l’avvertenza che ogni cuoco ha il suo modus operandi e i suoi segreti.
1. Si puliscono e si squamano i pesci, eliminando le branchie e le viscere.
2. Si prepara il brodo di pesce aggiungendo a un litro d’acqua sedano, carota, cipolla, il sale e il pesce di scoglio, quello di piccola taglia. Si porta a ebollizione schiumando se necessario, e si continua la cottura per 40 minuti.
3. Si filtra il brodo e si passano i pesci piccoli in un passaverdure, tenendo la polpa che ne risulta in caldo.
4. In un’altra pentola si fa un soffritto con olio, aglio, salvia, sedano, carota, cipolla, peperoncino e, se piace, prezzemolo.
5. Al soffritto si aggiungono i polpi e i moscardini tagliati a piccoli pezzi e, dopo qualche minuto, le seppie. Si sfuma con il vino rosso, si aggiungono i pomodori maturi privati della pelle e dei semi o il concentrato, la salvia e a mestoli, secondo necessità, il brodo di pesce, che andrà utilizzato tutto. E la polpa passata dei pesci piccoli.
6. Quando seppie polpi e moscardini sono ammorbiditi, si aggiunge il pesce più grosso, meglio a trance. Si fa cuocere a fuoco basso per un quarto d’oro, continuando ad aggiungere brodo quando serve. Per ultime si buttano in pentola le cicale e le cozze: quando queste si aprono, il cacciucco è pronto.
7. Si impiatta nelle fondine, mettendo nel fondo (o ai bordi) le fette di pane abbrustolite e strofinate con l’aglio. Partendo dal fondo, si comincia con polpi moscardini e seppie, si prosegue con il pesce a trance, si conclude con le cozze e i gamberi e sopra il tutto si versa il sugo di cottura.