Give cabbage a chance

«La zuppa era scura e ribollente come un lago infernale, e in superficie schioccavano putizze e galleggiavano fili rossi.. Solo Don Biffero sapeva che si trattava di cavolo diavolo, verdura coltivata esclusivamente negli orti di alcuni conventi, e di odore così fetido che si diceva, appunto, che ogni notte il diavolo venisse, via ctonia, a spennellarla di aliti maligni». Chi si ricorda la zuppa mefitica servita agli orfanelli, nell’esilarante La compagnia dei celestini di Stefano Benni?

Il cavolo, ma sarebbe meglio dire la vasta famiglia dei cavoli – ne fanno parte anche le cime di rapa, persino la rucola infestante nei carpacci e nelle tagliate che, diceva un amico toscano, «ovvìa, dalle mi’ parti la si dà ai coniglioli» – non gode di buona reputazione. È il clandestino, il “nero” delle verdure.
Nei modi di dire ha, come il nero, un’accezione sempre e soltanto negativa. Indica quel che capita a sproposito, come i cavoli a merenda. Quel che è stantio: cavolo riscaldato. Lo stupido: testa, o torso, di cavolo. La cosa di poco pregio che si ostenta per nascondere quella di maggior valore: portare il cavolo in mano e il cappone sotto il gabbano. Addirittura la morte: andare a ingrassare i cavoli.

Eppure senza il suo odore sulfureo e impregnante, che colonizzava androni scalinate e appartamenti, non ci sarebbe stata la grande letteratura russa dell’Ottocento. In ogni pagina russa che si rispetti, si tratti di Dostoevskij o Tolstoj, di Cechov o del Dottor Zivago, la puzza di cavolo prima o poi affiora e invade le narici del lettore.
Ma i russi il cavolo lo amavano e lo amano. Nelle Anime morte Nikolaj Gogol, che i malevoli dicevano si portasse dietro una scia di verza, lo fa servire a Cicikov, accompagnandolo a un altro piatto robusto e poco seducente, la niània: stomaco di agnello riempito di kascia di grano saraceno, cervello e piedino di vitello. Cicikov e il suo commensale Sobakevic’ apprezzano, ma è un’eccezione.
Nel Rosso e il nero di Stendhal, il seminarista e futuro omicida Julien Sorel trova che i suoi compagni siano volgari oltre ogni dire perché si abbuffano di salsicce e crauti (la meravigliosa choucroute alsaziana che però salteremo, perché usa il burro e non l’olio, a meno di non allestirne una versione “revisionista”). E la Fatina dai Capelli Turchini, per fare mangiare il cavolfiore con l’aceto a Pinocchio, gli deve promettere un confetto al rosolio.

Io che sto a mio agio nell’inverno e simpatizzo con i clandestini invece il cavolo lo amo. La verza e il cappuccio, la rapa e il cavolo nero, il broccolo e il friariello. Non essendo sovranista e antieuropeo, trovo che abbia una sua ragion d’essere persino il cavolino di Bruxelles. Perché, come tutti i clandestini, il cavolo è ingegnoso, abile a nascondersi e ad adattarsi. Mi scuserete se, per una volta, non fornisco ricette, ma ad elencarle tutte faremmo notte e comunque non avete nessuna difficoltà a procurarvele navigando in Rete.
Dicevo che il cavolo è ingegnoso, abile a nascondersi e ad adattarsi. Nel ripieno di molti agnolotti piemontesi, siano essi dell’Alessandrino o del Canavese, o semplicemente nell’involtino primavera (ma provate, fra le novità “di tendenza”, le chips di kahle, il cavolo coreano che assomiglia tanto al cavolo nero toscano, con pezzi di foglie spennellati d’olio e cosparsi di sale e sesamo e infornati per un quarto d’ora).

Perfetto per accompagnare würstel e carni grasse, il cavolo: della chocroute abbiamo detto. Ma anche le costine di maiale e i salamini non a caso detti “verzitt” della cassoeula lombarda, e della favata sarda. Oppure carni che suscitano i fremiti d’orrore degli schifiltosi e degli ignari, come l’asino dello strepitoso tapulone che si fa dalle parti di Novara, a Borgomanero.
Non si ferma mica qui, sarebbe troppo facile. Che ne sarebbe, senza di lui, di molte sontuose minestre invernali, come la jota triestina, la brovada friulana con il “musetto”, la sensazionale ribollita toscana che invoca, esige olio appena uscito dal frantoio?

Jota Triestina

Versatile, il cavolo. Capace di fare un giro di danza con il pesce in una delle mie minestre preferite, quella laziale con i broccoli e il brodo d’arzilla, che sarebbe poi la razza. Per tornare con i piedi per terra con paste altrettanto sontuose, come quella pugliese con le cime di rapa o quella siciliana con i broccoli. Ci sarebbe da continuare con altre decine di ricette, ma preferisco concludere con le polpette, che in mezza Europa vengono avvolte nelle foglie di cavolo. Da noi, basterà ricordare gli involtini di verza lombardi e i capunet piemontesi. Inutile dire, altrimenti non ne parlerei qui, che cavolo e olio d’oliva si sposano alla perfezione.

Involtini di verza

Manca il dolce, dite? Col cavolo che ci rinunciamo. A riabilitare il clandestino ha provveduto di recente il maestro pasticciere Ernst Knam. Con una mousse di cioccolato extra fondente con verza caramellata e visciole al Porto. Coraggio, give cabbage a chance.

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